Da pubblicità a intrattenimento: come si è evoluto il Branded Content

Da una semplice pratica pubblicitaria a una strategia di comunicazione più sofisticata e coinvolgente, negli ultimi anni il Branded Content ha subito un’evoluzione significativa. Numerosi brand hanno abbandonato approcci tradizionali basati su spot pubblicitari invasivi per concentrarsi su contenuti di qualità che intrattengono, informano o ispirano il pubblico.

Questa evoluzione ha visto l’ascesa del Branded Entertainment, che integra la promozione del brand in narrazioni autentiche e coinvolgenti, e che ha trovato terreno fertile anche nel settore audio e nel podcast.

Per comprendere meglio l’evoluzione che ha interessato il mondo del Branded Content e le opportunità che ne derivano per coinvolgere il pubblico in modo memorabile, abbiamo voluto intervistare Mirko Lagonegro, Founder & CEO di MDE e Portavoce OBE Podcast Committee.

Iniziamo con definire cosa si intende per “branded content & entertainment”…

La definizione corretta è quella inserita all’interno del White Paper realizzato dal Podcast Committee di OBE: “un Branded Podcast è un contenuto editoriale originale in audio, fruibile on-demand, ideato, realizzato e finanziato da un brand. È distribuito sulle properties digitali del committente e/o sulle piattaforme specifiche di podcasting, ed è finalizzato a intrattenere un pubblico-target in modo coerente con i valori e gli obiettivi del brand”.

Mirko Lagonegro

Rispetto al modo tradizionale di fare advertising, quali sono i punti di forza del branded content?

Il Branded Podcast gode di una serie di vantaggi “funzionali” che derivano dalla sua peculiarità di contenuto audio on demand: la possibilità di raggiungere l’ascoltatore in contesti di fruizione dove altri mezzi visivi non possono arrivare; non essere legato a un palinsesto lineare e quindi a una disponibilità temporale limitata; la grande quantità di touch-points per l’ascolto; un’audience ampia e in continua crescita.

Ciò detto, a mio parere il vero punto di forza è racchiuso nella domanda, un po’ provocatoria,
che chi opera in questo campo idealmente pone agli advertiser: perché essere la pubblicità
quando puoi essere il messaggio?

Il branded entertainment è generalmente più coinvolgente di uno spot e non agisce all’interno del cosiddetto “interruption marketing”, quella modalità di comunicazione che prevede l’interruzione nella fruizione di un contenuto per comunicare un messaggio promozionale. Questa tecnica, a cui tutti siamo abituati, basti pensare agli spot che fermano la visione di un video su YouTube, credo appartenga ormai ad un’altra epoca, quello in cui chi proponeva un contenuto interessante aveva, ed esercitava, una sorta di “potere” sull’utente.

Oggi, nell’era on-demand in cui sono loro a scegliere e decidere cosa, come e quando fruire di un contenuto, questa metodologia di comunicazione mostra tutte le sue debolezze, anche se non è ancora un pensiero radicato nelle aziende.

Il passaggio dalla modalità “affitto l’audience già esistente di un media per far conoscere i miei prodotti/servizi” a “divengo editore io stesso di contenuti interessanti per il mio pubblico target” è tutt’altro che semplice, certo, ma è solo questione di tempo: sono convinto che, negli anni a venire, assisteremo sempre di più ad operazioni di branded entertainment, audio e no, con cui le marche cercheranno di intessere una relazione duratura e diretta con i propri utenti.

Come si misura l’efficacia di una strategia di branded podcast?

Uno dei temi più delicati e discussi nel mondo del branded podcast è la misurazione dei risultati, i cosiddetti KPIs (Key Performance Indicators) che permettono di valutare l’efficacia nel raggiungere obiettivi prefissati.

Sebbene esistano precisi KPI (numero ascolti, per episodio/serie, utenti unici, tempo di fruizione medio, per citare i principali), poiché il branded podcast, come tutti i formati di brand entertainment, agisce sulla parte alta del funnel a beneficio dell’awareness del brand committente, la sua misurazione è meno immediata rispetto a quella tipica del advertising (è semplice contare dei click), rendendo necessario il ricorso a ricerche, i cosiddetti brand lift studies, con cui misure
l’impatto dell’attività nel tempo.

È davvero un tema centrale per la nostra piccola Industry, e proprio per questo Il Branded Podcast Committee di OBE sta lavorando ad un aggiornamento delle specifiche dei KPIs contenute nel White Paper.

Quali sono le regole da rispettare per creare un branded podcast efficace?

Una su tutte: pensare all’utente, creare un contenuto che gli “risolva” un’esigenza, che sia il voler essere intrattenuto, informato o formato. È proprio qui che il “potere” dell’utente di cui parlavo prima si esprime in tutta la sua forza: che il brand XY debba parlare del suo prodotto risolve un suo problema di business, ma se non risponde ad una precisa esigenza dell’audience, quello che accadrà è certo: smetterà di ascoltare. Del resto, ammettiamolo: chi si ascolterebbe mai un lungo spot, peggio mi sento se “spacciato” come branded entertainment?

A tuo avviso, nel podcast il branded content può essere utilizzato in sinergia con altre strategie di comunicazione?

Può, certo, anzi, dovrebbe! Oggi, per intercettare l’attenzione degli utenti – cercando poi di farla evolvere in interesse e, quindi, fidelizzarli – è sempre più frequente il ricorso ad una “strategia omnicanale”, l’approccio di un brand verso ogni touchpoint, digitale o fisico che sia.

Il branded podcast, come tutti i formati di branded entertainment, va quindi considerato uno strumento “strategico”, non “tattico”, la cui efficacia aumenta esponenzialmente se declinato all’interno di un’azione che prevede l’uso di più formati e linguaggi.

Quanto si è diffuso il branded podcast negli ultimi anni?

Il primo branded podcast italiano, che curai personalmente, fu pubblicato nel 2019, quindi oggi siamo al quinto anno di vita per questo strumento di comunicazione, e in quest’arco di tempo ne sono stati prodotti mediamente un centinaio all’anno, per brand delle più svariate merceologia.

Ciò nonostante, anche guardando ad altri mercati, più sviluppati rispetto al nostro, penso di poter affermare che siamo solo all’inizio: è necessario un costante lavoro di “educazione” sulle caratteristiche di questo formato di comunicazione da parte dei produttori verso i brand, che è poi la ragione stessa dell’esistenza dell’Obe Podcast Committee.

E quali sono le aspettative per il futuro?

Rosee. Il paradosso italiano è che, a fronte di un’audience di podcast in continua crescita, solo in minima parte i brand investono su questo formato di comunicazione, la cui efficacia è ben documentata. Sono però sicuro che la situazione sia vicina a cambiare a fronte della crescente consapevolezza del mercato sulla necessità di andare oltre alla semplice “visualizzazione” e perseguire attenzione e interesse, all’approssimarsi della cookie deprecation e della presa d’atto della riottosità delle generazioni più giovani verso le “solite” tecniche di comunicazione pubblicitaria.

Cosa si intende quando si parla di audio intelligence?

È un termine che abbiamo coniato io e Davide Panza, mio socio in MDE un paio d’anni fa, quando iniziavamo a studiare l’intelligenza artificiale e il suo impatto sul mondo dell’audio. In pratica, ci riferiamo al combinato disposto dato dalla tecnologia, nello specifico alcuni tool di Text to Speech che usiamo per i nostri clienti, e le competenze necessarie non tanto a traslare in audio un testo scritto – di piattaforme free che, inserito un testo, restituiscono in pochi secondi un file audio è pieno il web -, ma a farlo diventare un contenuto capace di creare una audio experience efficace.

Certo, non possiamo in questo caso parlare di podcast, termine che si riferisce ad un contenuto narrativo, caldo, coinvolgente, ma le possibilità d’impiego del linguaggio audio sono molte, e in certi casi l’uso dell’Audio Intelligence si sta già rivelando essere estremamente interessante.